Dire Moz è come dire Dio. I fedeli della Church of Morrissey lo sanno da sempre. Come i segua
Dire Moz è come dire Dio. I fedeli della Church of Morrissey lo sanno da sempre. Come i seguaci di qualsiasi culto, non possono fare altro che prenderne atto. Nonostante la natura dispettosa e bizzarra, tipica di chi si pone come divinità, in ciascuna delle sue manifestazioni terrene si cela almeno un barlume di genio (non soltanto) musicale. Un cenno di vita che gli da conferma di una verità pura, semplicissima e manifesta: Morrissey è Dio. Il regista Mark Gill è indubbiamente uno di loro, un edepto. Sebbene il diretto interessato abbia inanellato un filmaccio dietro l'altro senza mostrare vergogna alcuna, grazie a Dio ha visto la luce. E ora il figliol prodigo, dopo trascurabili pellicole come Attacco al Potere e Giustizia Privata, sembra essersi finalmente passato una mano sulla coscienza (a-men!) e in England is Mine si produce in uno dei bio-film più interessanti degli ultimi tempi (di cui l'ultimo che ricordi è What We Do Is Secret sui Germs, di una decina d'anni fa). Ma se è per questo possiamo allargare il campo dei nostri complimenti anche alla carriera cinematografica di Jack Lowden, passato con un giro di boa dalle serie tv per la BBC (e poco altro e che comunque ignoro) a interpretare il ruolo di Dio sul grande schermo. Mica male. England is Mine in origine si sarebbe dovuto chiamare Steven, ossia il primo nome di Morrissey, come a sottolineare la volontà di analizzare il ragazzo prima dell’artista; dal momento che il secondo recita Non nominare il nome di Dio invano, si è preferita di riflesso una soluzione (diciamo) citazionista, da Still Ill degli Smiths: “England si mine, it owes me a living” appunto. Premesso però che il film non è mai stato autorizzato da Morrissey e sai che sorpresa, le possibilità di fallire miseramente erano altissime. Invece il buon Gill è riuscito a ribaltare la sorte avversa, trasformando in punti di forza della pellicola sui dolori del giovane Morrissey quelli che su carta potevano essere i segnali di un flop clamoroso. Due su tutti: la quasi totale assenza di scene musicali e la forzata impossibilità di inserire brani degli Smiths per motivi di copyright. Mark invece riesce a costruire un film che è nel suo incedere irresistibile, dove il silenzio appare come unica soluzione narrativa possibile per esprimere un mondo ancora privo della bellezza donategli da Morrissey attraverso la sua poetica. C'è solo un momento live di poco più di un minuto, dove la prima band di Steven, i Nosebleeds, ripropone un brano delle Shangri-La: tanto basta per capire che cosa ci saremmo persi se Dio non si fosse mai rivelato. Ma i pezzi di bravura scenica e interpretativa si susseguono sulla pelle dello sguardo, e non ce ne vogliano registi ben più noti le cui biografie filmate hanno fatto carrettate di soldi e proseliti, è proprio l'assenza di una volontà puramente voyeuristica (chi ha detto Control?) a fare la vera differenza. Non aspettate influenze manifeste, il poster di Oscar Wylde sta lì ma sta a voi scovarlo. Non fantasticate amori promiscui, la bisessualità è latente. Non immaginate infinite controversie, il caratterino complesso però è già quello che sarà. L'interpretazione di Lowden non è il classico mimetismo da actor’s studio. No. Tanto più che per buona parte del film sembra una sorta di incrocio tra Mick Jagger e Rivers Cuomo. La sua è passione. La passione di uno che ringrazia il Cielo che all'Inghilterra sia toccato in sorte (anche) Morrissey. Un vero artista, un intellettuale senza timore d'esserlo, e come tale in grado di comprendere la vita e i suoi disagi, in special modo negli anni dell’adolescenza. Forse per qualcuno sarebbe stato meglio un lungometraggio in cui poter sbirciare dentro i camerini del Rockpalast di Amburgo, mentre Morrissey si infila un mazzo di fiori nella tasca posteriore dei jeans prima di salire sul palco e attaccare una clamorosa Hand In Glove, o magari curiosare la gestazione di brani come There Is A Light That Never Goes Out, Panic o This Charming Man. Magari approfondire i collegamenti socio-politici con l’Inghilterra tatcheriana sibillinamente presenti in Ask. Ma sarebbe stato un altro film. Qui si è deciso di percorrere (obbligatoriamente o no) una strada meno sicura, di sicuro meno ruffiana, creando lo stesso un qualcosa pieno di fascino. Senza rischiare la parodia o la forzatura. Un film che per qualcuno potrebbe risultare “per veri fan” ma che è invece sorprendentemente pieno di estro e talento, in cui Lui splende iconico, meravigliosamente fragile e arrogante. Idealista e sognatore. Sfacciatamente autentico. Ci sono anche altre cose in England is Mine, e tutte degne d'essere ammirate, da qualche ottima battuta all'incontro con Johnny Marr, ma sappiate che se ve lo perdete vi perdete soprattutto la possibilità di comprendere che mondo di merda sarebbe stato, al di là di tutte le bizzarrie e di tutti i dispetti propri di (un) Dio, senza un fottuto genio come Morrissey. -- source link
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