Non so soffrire.
Non so soffrire. Il mio dolore non ha eleganza. Non so essere una signora composta che tira su col nasino e si asciuga una lacrima fuggiasca con il suo fazzolettino ricamato. Ho un dolore selvatico, aspro, ringhioso. Un dolore più da animale ferito che da essere umano. E quindi non lo esprimo mai in pubblico. E se posso, nemmeno in privato. Lo allontano, lo ignoro, lo ghettizzo. Me ne difendo. Lo sa. Io e il mio dolore ci conosciamo da sempre e sa bene che a prendermi di petto ci rimedia solo una batosta. Allora, come un vecchio gentiluomo, si siede (lui, si, composto) e aspetta. Aspetta che mi distragga.Aspetta una passeggiata sul lungomare con un'amica un vecchio film, la cena con una persona di cui mi fido, aspetta che mi rilassi. Si avvicina felpato come un gatto e colpisce. Mi pianta le zanne proprio sotto il cranio, sento il colpo che mi lascia senza fiato, mi fa battere il cuore forte come se mi volesse rompere le costole e inizia a instillarmi il suo veleno. Che mi brucia la mente al punto che penso ad una sola cosa. A liberarmene. Nel modo meno elegante che conosco, raccogliendomi intorno a me stessa, con le ginocchia sotto il mento, le mani sulla testa a intrecciarsi tra i capelli, senza singhiozzi, no, sarebbe troppo facile, sono lamenti come quelli di un animale ferito, spesso senza lacrime. Rincantucciata in un angolo, mi immergo in quel veleno che mi fa soffrire così disumanamente e lo lecco e me ne nutro fino ad esaurirlo. Fino alla prossima volta. Perché ci sarà sempre una prossima volta, lo so io e lo sa lui. Non oggi, non domani, ma ci sarà. Come se in fondo in fondo pensassi che senza quella sofferenza sarebbe come se non fosse successo niente e mi servisse per tenere tutto a mente. Come se fosse sbagliato essere felici e basta. A volte mi è servito quel dolore. Mi ha fatto sentire viva. Come io sono servita a lui. Per lo stesso motivo. -- source link