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È il 5 aprile del 1972 quando il movimento omosessuale italiano inizia la sua rivoluzione. «Noi non lo potevamo neanche immaginare», racconta Angelo Pezzana, 82 anni, padre fondatore del F.U.O.R.I (Fronte Unitario Omosessuale Rivoluzionario Italiano), il primo movimento #LGBTI italiano nato nel 1970.È un racconto commovente ed esatto di un secolo in cui “non ci potevamo neanche nominare, la parola più dolce che usava mia madre era ‘invertiti’”. «Avevamo bisogno di uscire fuori. Dovevamo far capire che non eravamo solo i cadaveri ridotti dalle cronache nere agli ambienti particolari».Sanremo è il palcoscenico del primo atto rivoluzionario italiano. L’occasione era il primo congresso internazionale di Sessuologia del CIS dal titolo “Comportamenti devianti della sessualità umana”.«Lo scopo di questo convegno era chiaro: definire l’omosessuale come una malattia, diffondere questo concetto e aumentare un mercato. Per noi non poteva che essere un’occasione per farci sentire. Oggi dicono che a quella manifestazione c’erano persone da tutta Europa. Ma sono balle. Eravamo pochissimi, circa 17, non certo i Pride di oggi. Volevamo sentire cosa avrebbero detto. Con noi avevamo delle fialette puzzolenti. Ci eravamo detti, se succede qualcosa le rompiamo e disturbiamo il congresso poi a inizio lavori successe qualcosa».Quel qualcosa era Francoise d’Eaubonne, filosofa francese che avrebbe introdotto da lì a poco il termine “ecofemminismo” sulla scena mondiale. “Si alzò e andò sul palcoscenico. Prese il microfono e sembrava Giovanna D’Arco: siete qui per parlare di omosessualità, ma siamo noi a dover parlare di noi stessi. Non vi permetteremo più di definirci come malati, siamo qui per impedirvelo”.Subito dopo ruppero le fialette puzzolenti. “Ci fu un bel trambusto. Un poliziotto aveva chiesto chi fosse l’organizzatore della manifestazione. Mi lasciai accompagnare in stazione dalle forze dell’ordine. In tranquillità”.Con tranquillità Angelo Pezzana sale in macchina, arriva in questura e mette tutto a verbale: siamo omosessuali, non siamo persone malate. Dobbiamo essere visibili.da L’Espresso -- source link